martedì 10 aprile 2012

Scuola di Francoforte

-Negli anni '30 c'è un acceso dibattito sulla questione se il cinema sia arte o no. Spesso le posizioni critiche arrivavano da una sinistra antiamericana ed anticapitalista, di impostazione marxista; Duhamel, ad esempio, critica il cinema perchè rende lo spettatore omologato e passivo, e lo definisce “macello della cultura, cui gli spettatori vanno come le pecore al macello”. Diceva anche che è un passatempo per schiavi ed un mezzo di divertimento per gli illetterati.

-Questo dibattito si sviluppò soprattutto dopo il libro di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), libro sociologico che accende il dibattito sull'influenza dei media nella mente dello spettatore. Benjamin, pur di sinistra, esalta il cinema, perchè lo vede come possibile catalizzatore di idee rivoluzionarie. Esso infatti amplia la percezione umana ed approfondisce la coscienza critica della realtà. La sua unicità consisteva proprio nel suo non essere unico come ad esempio un quadro, bensì di essere riproducibile ovunque in ogni tempo, facendo cadere il culto dell'oggetto artistico inaccessibile, unico e remoto e quindi elitario, diventando liberamente fruibile (caduta dell'aura). Così l'attenzione si sposta dalla venerazione dell'oggetto d'arte in sé al dialogo tra opera e spettatore.

-Estremamente critica nei confronti del cinema e di Benjamin è la Scuola di Francoforte, nata istituzionalmente negli anni '50, ma risalente ad un dibattito iniziato nel 1923 negli ambienti dell'istituto di Ricerca Sociale di Francoforte, capeggiata da Adorno e Horkheimer. Essa sostiene che ogni prodotto dell'industria culturale, ma merce che trasforma il suo pubblico in meri consumatori (morte dell'arte); in questo contesto solo un'arte modernista, difficile ed elitaria potrebbe essere considerata tale (ma così facendo essa escluderebbe le classi sociali più modeste, proprio quelle che dovrebbero essere più care ad un marxista come Adorno). In essa si coniò per la prima volta il termine “industria culturale” per indicare l'apparato industriale che produceva e mediava la cultura popolare, vedendo quindi negativamente l'uso della tecnologia fatta dai governi e criticando Benjamin per la feticizzazione della tecnologia.

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